«Osama Bin Laden è morto di malattia qualche giorno prima del presunto raid americano ad Abbottabad». Così riferisce all’ANSA il giornalista palestinese, Jamal Ismail, esperto della vita del capo di Al Qaida, precisando che la fonte delle sue informazioni è il medico che aveva in cura lo “Sceicco del terrore”.
«Le autorità pachistane - aggiunge - hanno quindi avvertito gli americani, i quali hanno organizzato tutta quella messinscena solo per non farsi accusare dai media di tutto il mondo di non essere stati in grado di prenderlo prima».
Ismail, che vive in Pakistan da una ventina d’anni, conosce bene Bin Laden. «L’ho intervistato quattro volte ma ho parlato con lui in moltissime altre occasioni», racconta, seduto nell’ ufficio pieno di libri nella sua casa di Islamabad. E smonta, pezzo per pezzo, tutta la versione dell’uccisione di Osama fornita dagli Stati Uniti: «Dicono di averlo ucciso perché ha opposto resistenza, ma anche che era disarmato. Io - spiega - non l’ho mai visto senza la sua arma a fianco, una sorta di kalashnikov, più moderno, piccolo e maneggevole. Lo metteva vicino al letto quando dormiva e lo portava con sé quando andava in bagno».
«Dicono - prosegue - che l’operazione è durata 40 minuti. Credete davvero che Bin Ladenabbia atteso immobile per tutto quel tempo che gli americani entrassero a prenderlo?». Il leader di Al Qaida, secondo Ismail, non viveva ad Abbottabad, «una città piena di militari». E allora, dove sarebbe morto? «Non a casa mia», risponde ridendo.
A non convincerlo inoltre è lo stesso compound di Abbottabad: «L’uomo più ricercato del mondo non avrebbe mai vissuto in una casa senza vie di fuga, con solo due portoni principali e mura di cinta alte 6 metri».
Poi ancora: «Nessuno ha visto le foto, nessuno ha visto né parlato direttamente con la figlia di 12 anni che avrebbe detto che Osama era ancora vivo». E così via. Fino ad accusare il governo pachistano che, dice, «dovrà dare molte risposte alla nazione».
La prima volta che Ismail intervistò Bin Laden fu a Peshawar nel 1984, Osama aveva 27 anni: «Era un tipo tranquillo - ricorda -. Non partecipava alle discussioni con gli altri arabi sull’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Lui, più che parlare, ascoltava».
L’ultimo incontro fu nel 2000 a Kandahar. All’indomani dell’11 settembre 2001 Ismail avrebbe dovuto intervistarlo ancora una volta, «in un luogo segreto dell’ Afghanistan, dove mi avrebbero portato bendato». Ma «sfortunatamente», dice Ismail, l’incontro saltò perché gli americani arrivarono a Kabul. «Fu lui stesso - racconta ancora il giornalista - a telefonarmi per dirmi di lasciare il Paese, altrimenti mi avrebbero preso per uno di Al Qaida. Da allora, non l’ho più sentito».
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